Prima
guerra mondiale: è notte, sopra i cieli di Venezia. Un
bombardiere austriaco viene abbattuto sulla laguna.
L’unico sopravvissuto è il pilota, Matteo Campini.
Che sa bene di essere in un brutto pasticcio: gli italiani non sono
affatto teneri con gli ufficiali triestini che combattono per
l’Impero austro-ungarico.
Messo in salvo da un’affascinante e misteriosa ragazza,
Flavia Manin, ben presto Campini scopre di essere al centro di una
sinistra macchinazione che viene dal futuro. Dalla Bosnia Erzegovina,
figlia dei massacri etnici degli anni ’90, qualcuno sta
cercando di cambiare le sorti della prima guerra mondiale, giocando una
partita ambigua che muove uomini ed eserciti come fossero tragiche
pedine.
Campini non dovrà più lottare solo per salvarsi
la vita: l’intero destino dell’Europa è
nelle sue mani. Affronterà Hermann Göring in
persona, quando il futuro gerarca nazista ancora era un pilota di
caccia, nella squadriglia del Barone Rosso.
Ma nella lotta contro le forze del male non è solo:
riceverà aiuto dal poeta soldato Gabriele
D’Annunzio e dalla ragazza che porta sul seno una enigmatica
spilla d’oro a forma di clessidra.
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“Ecco,
questo è il poco materiale che ho trovato sul Macellaio. Ho
montato uno spezzone filmato... è roba un po’
romanzata, ma potrebbe servire per introdurre al pubblico la sua
personalità malata. Vuoi vedere?”
“Se
proprio devo…”.
Il
giornalista diede qualche colpo con il mouse, e sul visore olografico
del computer apparve la scritta: “Agosto 1995, controffensiva
croata nella sacca di Bihac”.
Poi
cominciò il filmato.
Ci sono molti modi per
scrivere un romanzo. C’è chi prepara una
dettagliatissima scaletta di quello che dovrà succedere,
capitolo dopo capitolo; c’è chi si crea delle
schede biografiche dei personaggi, immaginando ogni minuzioso dettaglio
del carattere dei suoi eroi di inchiostro, i loro gusti e le
loro piccole manie… chissà, magari disegna
perfino il ritratto di come sono fatti. C’è chi si
prepara per mesi, documentandosi in biblioteca o circondandosi di
libroni. E c’è chi scrive di getto, inventandosi
di sana pianta tutto quello che gli serve per raccontare la storia che
ha in mente.
Il mio metodo non
c’entra nulla con nessuno di questi. Non per niente
è il più improduttivo di tutti. Quando comincio a
scrivere non so nemmeno vagamente cosa succederà nella
pagina dopo, motivo per cui posso cincischiare anche due o tre anni
prima di finire un romanzo. I personaggi sono semplicemente persone
reali, amici della vita di tutti i giorni, sbattuti nella storia e
lasciati lì a cavarsela da soli. Quello che succede non sono
io a deciderlo; mentre scrivo mi arrivano delle suggestioni dalle fonti
più diverse: libri leggiucchiati in metropolitana,
frammenti di pagine Internet (non potrei nemmeno pensare di scrivere
senza avere il browser aperto, non per niente il mio portatile ha uno
schermo enorme), e l’onnipresente radio accesa. Una radio a
transistor come quelle di una volta, con la manopola della sintonia,
l’unica che permette di gironzolare a caso per
l’etere senza aver la più pallida idea di quale
stazione sia sintonizzata. E in quella sera di agosto del 1995, un
giornale radio di chissà quale emittente mi rese
edotto sull’inizio dell’“Operazione
Tempesta”: 150 mila soldati croati lanciati alla
conquista della Sacca di Bihac, territorio di cui io, come tutti gli
altri, non avevo mai sentito neppure parlare. Da qualche parte nei
monti della Krajina. Come era stato per i nostri bisnonni nella Grande
guerra, a tre ore di macchina da Trieste, la gente moriva nel fango,
nelle trincee e nelle case bombardate dagli aerei. Compresi quelli
della Nato: i nostri aerei! Data la notizia, la radio tornava a
occuparsi d’altro: mi pare di ricordare (sono passati undici
anni, cavolo!) che trasmetteva “Gente come noi” di
Ivana Spagna, fresca del podio sanremese. Gente come noi, appunto. Ma
senza voler togliere nulla alla “gente come noi che non sta
più insieme, ma che come noi ancora si vuol bene”,
mi interessava di più la storia della gente che non stava
più insieme ma non si voleva bene per niente, e se lo
dimostrava a fucilate, mentre altra gente come noi, europei come loro,
non solo se ne fregava ma ci metteva pure del suo con qualche raid
aereo e qualche bombetta, così, tanto per gradire.
L’amara storia
della sacca di Bihac cadde dunque nel romanzo. Una citazione senza
peso, in una pagina qualunque del romanzo, semplicemente quella che
stavo scrivendo quando la sintonia a caso pescò
proprio quella stazione.
Il soldato stravolto
correva piegato in due in quello che restava di un campo di segale. Tra
le mani sudate stringeva un vecchio mitragliatore sovietico.
Attorno a lui si era
scatenato il giorno del giudizio. L’artiglieria croata
sembrava impazzita, le esplosioni degli obici erano così
ravvicinate da sembrare un solo immenso tuono. Poco davanti a
lui il terreno esplose in un geyser di roccia e terra, e il soldato
perse l’equilibrio.
Si rialzò
freneticamente e continuò a correre. Una scheggia doveva
averlo ferito, perché un rivolo di sangue si mescolava alla
maschera grottesca fatta di lacrime, sporcizia e sudore che un tempo
era stata la faccia pulita di uno studente di Pale.
Balcani, stupri, pulizie
etniche, serbi contro croati, cecchini, bombe, trincee: sembrava di
essere tornati indietro di cento anni, in piena barbarie, quasi che la
Grande guerra dovesse essere combattuta per la seconda volta. Ma in un
altro tempo, come se la promessa “mai
più” non fosse mai stata solennemente pronunciata;
e per di più con la presenza di soldati italiani in Serbia e
Montenegro, come se la nostra Costituzione non ripudiasse la guerra.
E così ho
cominciato a fantasticare: immaginiamo che una notte, durante la prima
Guerra Mondiale, un bombardiere austriaco venga abbattuto sulla laguna
di Venezia…
E qui la fredda cronaca
per diventare materiale narrativo si arricchiva con le suggestioni
più personali. In quei giorni nasceva Giacomo, mio figlio, e
l’inizio del romanzo ne venne profondamente segnato.
L’acqua salata
invase la cabina, mentre l’aereo affondava rapidamente. Come
in trance, Campini lottò per liberarsi dalla cintura di
sicurezza e nuotò verso la superficie. Emerse con i polmoni
che scoppiavano e finalmente svenne.
Un parto alla rovescia,
praticamente. Campini, il protagonista, nasce nudo e indifeso
dall’acqua tiepida della laguna. E subito incontra sua madre:
l’enigmatica Flavia Manin, che lo salva dai rottami del suo
aereo e piano piano gli insegnerà che il mondo è
più complicato di quello che lui possa immaginare. Lo prende
per mano e gli fa aprire gli occhi su una terribile macchinazione che
parte dal futuro, dalla Bosnia Erzegovina dilaniata dalla guerra civile
degli anni ’90.
Il romanzo storico si
colorava dei toni della novella fantastica, permettendomi di mantenere
una promessa che mi ero fatto da bambino. Una promessa che era nata
durante i periodi di vacanza dalla nonna, sul lago di Como. Lei aveva
una splendida raccolta di Urania, la collana mondadoriana. Libriccini
bianchi con un oblò aperto sui mostri più
orribili e sulle galassie più affascinanti che il pennello
dell’artista italo-olandese Karel Thole sapeva creare.
Immagini che scavavano nella mia fantasia di bambino: materiale
insuperabile per creare giochi bellissimi. E la nonna raccontava
volentieri le storie di quei libri, inframezzandole coi suoi ricordi.
Fu allora che decisi
cosa avrei fatto da grande: avrei scritto uno di quei libri e
– avevo già stabilito - Thole gli avrebbe
disegnato la copertina. Un libro con un oblò da cui sarebbe
sbucato un bellissimo aeroplano, il mio gioco preferito, uno di quegli
aeroplani di balsa e carta che d’estate facevo volare sul
lago. E ci volevo anche un teschio, meglio ancora, una nuvola a forma
di teschio. Per fare paura, per fare sognare un altro bambino.
Venticinque anni dopo
sarei riuscito a mantenere quella promessa (ma accidenti a me, invece
che fare lo scrittore non potevo desiderare di vincere al totocalcio?)
con l’unico, grande rimpianto che Karel era diventato troppo
vecchio per dipingere una copertina delle sue. Vinsi dunque il Premio
Urania, destinato al migliore romanzo di fantascienza inedito; il che
era una bella sfida, in quanto io c’entravo davvero poco con
disintegratori, alieni e astronavi. Per mia fortuna, gli elementi
fantastici del romanzo convinsero la maggior parte dei giurati a
chiudere un occhio sulla mancanza di vera fantascienza, e i Biplani
videro la luce nel ’96, sia pure con una copertina orribile,
nella collana dei miei sogni di ragazzino.
Il miscuglio tra romanzo
storico, romanzo di guerra, aeronautica e di spionaggio, sospeso tra il
passato e il futuro spiazzò i fan dei disintegratori, che
giustamente mi considerarono sempre una specie di infiltrato, e mai
veramente “uno di loro”, ma in compenso
intrigò chi cercava una storia diversa dal solito. Il
romanzo venne immediatamente tradotto all’estero,
inizialmente in francese dove conquistò il Prix Bob Morane
al salone del libro fantastico di Bruxelles, come miglior romanzo
straniero (nientepopodimeno). “Si pone incontestabilmente fra
i migliori romanzi tradotti dell'anno”, scrisse il quotidiano
parigino le Monde. Che più avanti, mi riconosceva di aver
inaugurato “un filone molto personale nella letteratura
fantastica”.
Bene, la prima parte
della promessa l’ho mantenuta. E adesso, dieci anni dopo la
prima edizione, posso mantenere anche la seconda: una bellissima
copertina. Con una nuvola a forma di teschio.
E come se il teschio non
bastasse a far felice il ragazzino che è in me, quello
strano triplano bianco e blu che campeggia in copertina è
proprio uno dei miei aeroplanini, uno dei miei preferiti…
Purtroppo di lui mi sono rimaste solo le ali, dopo che è
andato distrutto in uno scontro in volo durante una gara di aircombat.
Ma poco male, io so volare anche senza aeroplanini, mi basta la
tastiera e tante storie da inventare. |
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