una
spy story sul lago di como
negli anni '20. Tra bambinaie dure
come
colonnelli del controspionaggio, contrabbandieri misteriosamente
assassinati, lord inglesi che ascoltano la voce dei pesci negli abissi
lacustri e l’ombra di Ettore Majorana, il fisico nucleare
misteriosamente scomparso, si delineano i contorni di una vicenda che
sarebbe pane per i denti di James Bond.
Visto però che le spie con licenza di uccidere non abitano
in provincia, a cercare di far luce sull’intricata vicenda
non resta che il Marchion, attempato mastro d’ascia che ha
fatto più barche di quanti capelli abbia ancora in testa.
Proprio a lui, che capisce le barche meglio delle persone, spetta
l’arduo compito di scoprire chi e perché ha
ammazzato Raù, il vecchio barcaiolo.
E per riuscirci avrà bisogno dell’aiuto di tutto
il paese, a cominciare da un paio di ragazzini del posto per finire col
Martin Picc, l’impiccione del paese, che non è del
tutto a posto con la testa ma sa tutto di tutti e «ci ha
più ascoltatori luidell’Eiar». Ben
presto, quella che sembrava un’indagine su un regolamento di
conti tra delinquenti di mezza tacca, si ingigantisce in un rutilante
susseguirsi di colpi di scena: il lago diventa teatro delle gesta di
agenti segreti, infuriano battaglie subacquee senza esclusione di colpi
per recuperare il relitto di un aeroplano che custodisce la chiave di
un mistero sconvolgente, e c’è anche chi giura di
aver visto riapparire un leggendario mostro locale.
Tutta
l'azione si svolge qui, in questo pezzettino di lario
Dalle
parti di Cadenabbia, paesucolo più o meno a metà
del lago di Como, c’è un detto che recita:
«Non fare come quello là che ha fatto la barca in
soffitta, e poi ha dovuto tirar giù il tetto per farla
uscire».
Che è esattamente quanto ha fatto il Marchion, un mio
trisnonno o giù di lì, che doveva essere un tizio
piuttosto originale. Ma comunque geniale, a modo suo:
tant’è vero che, trasformandosi in proverbio,
è riuscito a ritagliarsi una fettina di
immortalità, per quanto strettamente locale. Per le ferree
leggi della genetica, avere un simile elemento nell’albero
genealogico ha sicuramente avuto effetti destabilizzanti sulla
sanità mentale familiare, così fin da piccolo ho
sentito raccontare storie inverosimili avvenute in quel ramo del lago
di Como che, a seconda di chi raccontava e del contesto del racconto,
tendevano a dilatarsi come un oceano infuriato, oppure a diventare un
gelido abisso brulicante di mostri, o ancora il teatro di epiche
battaglie navali tra contrabbandieri e finanzieri. Insomma, una vera e
propria tradizione epico-familiare, che era un vero peccato affidare
solo alla volatile tradizione orale. Ecco dunque che – come
un Omero in scala domestica – mi sono deciso a fissare sulla
carta alcune delle storie più interessanti che ruotano
attorno al Marchion. Visto che è impossibile districare
fantasia e realtà dalle leggende familiari, può
darsi che qualche lettore laghé crederà di
riconoscere fatti o personaggi realmente vissuti: ma sarà
solo un’impressione, il romanzo è di pura fantasia
e ogni riferimento è assolutamente casuale.
Ho cercato di rispondere alle due domande angosciose che da piccolo mi
ronzavano nel cranio: primo, perché diavolo il Marchion
avesse deciso di trasformare il solaio in un cantiere nautico; e
secondo, che diavolo di barca c’avesse in testa, quello
lì. La risposta alla prima domanda è la
più semplice: in soffitta le donne di casa non gli rompevano
le scatole, così poteva picchiare di mazza e spargere
segatura finché gli pareva. Quanto alla seconda, lascerei la
parola allo stesso Marchion: Questa barca mi farà
viaggiare tra i mondi. Ma non come il cannone di Giulio Verne, voglio
dire i mondi che cabbiamo in testa. Per questo mi serve una barca
elegante, da turisti. Che di entrare nella testa dei laghée
l’è fatica sprecata, tanto dentro non
c’è mica niente.