BIPLANI |
I Biplani di D'Annunzio
“ Ecco, questo è il poco materiale che ho trovato sul Macellaio. Ho montato uno spezzone filmato... è roba un po’ romanzata, ma potrebbe servire per introdurre al pubblico la sua personalità malata. Vuoi vedere?” “ Se proprio devo…”. Il giornalista diede qualche colpo con il mouse, e sul visore olografico del computer apparve la scritta: “Agosto 1995, controffensiva croata nella sacca di Bihac”. Poi cominciò il filmato. Ci sono molti modi per scrivere un romanzo. C’è chi prepara una dettagliatissima scaletta di quello che dovrà succedere, capitolo dopo capitolo; c’è chi si crea delle schede biografiche dei personaggi, immaginando ogni minuzioso dettaglio del carattere dei suoi eroi di inchiostro, i loro gusti e le loro piccole manie… chissà, magari disegna perfino il ritratto di come sono fatti. C’è chi si prepara per mesi, documentandosi in biblioteca o circondandosi di libroni. E c’è chi scrive di getto, inventandosi di sana pianta tutto quello che gli serve per raccontare la storia che ha in mente. Il mio metodo non c’entra nulla con nessuno di questi. Non per niente è il più improduttivo di tutti. Quando comincio a scrivere non so nemmeno vagamente cosa succederà nella pagina dopo, motivo per cui posso cincischiare anche due o tre anni prima di finire un romanzo. I personaggi sono semplicemente persone reali, amici della vita di tutti i giorni, sbattuti nella storia e lasciati lì a cavarsela da soli. Quello che succede non sono io a deciderlo; mentre scrivo mi arrivano delle suggestioni dalle fonti più diverse: libri leggiucchiati in metropolitana, frammenti di pagine Internet (non potrei nemmeno pensare di scrivere senza avere il browser aperto, non per niente il mio portatile ha uno schermo enorme), e l’onnipresente radio accesa. Una radio a transistor come quelle di una volta, con la manopola della sintonia, l’unica che permette di gironzolare a caso per l’etere senza aver la più pallida idea di quale stazione sia sintonizzata. E in quella sera di agosto del 1995, un giornale radio di chissà quale emittente mi rese edotto sull’inizio dell’“Operazione Tempesta”: 150 mila soldati croati lanciati alla conquista della Sacca di Bihac, territorio di cui io, come tutti gli altri, non avevo mai sentito neppure parlare. Da qualche parte nei monti della Krajina. Come era stato per i nostri bisnonni nella Grande guerra, a tre ore di macchina da Trieste, la gente moriva nel fango, nelle trincee e nelle case bombardate dagli aerei. Compresi quelli della Nato: i nostri aerei! Data la notizia, la radio tornava a occuparsi d’altro: mi pare di ricordare (sono passati undici anni, cavolo!) che trasmetteva “Gente come noi” di Ivana Spagna, fresca del podio sanremese. Gente come noi, appunto. Ma senza voler togliere nulla alla “gente come noi che non sta più insieme, ma che come noi ancora si vuol bene”, mi interessava di più la storia della gente che non stava più insieme ma non si voleva bene per niente, e se lo dimostrava a fucilate, mentre altra gente come noi, europei come loro, non solo se ne fregava ma ci metteva pure del suo con qualche raid aereo e qualche bombetta, così, tanto per gradire. L’amara storia della sacca di Bihac cadde dunque nel romanzo. Una citazione senza peso, in una pagina qualunque del romanzo, semplicemente quella che stavo scrivendo quando la sintonia a caso pescò proprio quella stazione.
Il soldato stravolto correva piegato in due in quello che restava di un campo di segale. Tra le mani sudate stringeva un vecchio mitragliatore sovietico. Attorno a lui si era scatenato il giorno
del giudizio. L’artiglieria croata sembrava impazzita, le
esplosioni degli obici erano così ravvicinate da sembrare
un solo immenso tuono. Poco davanti a lui il terreno esplose in
un geyser di roccia e terra, e il soldato perse l’equilibrio.
Balcani, stupri, pulizie etniche, serbi contro croati, cecchini, bombe, trincee: sembrava di essere tornati indietro di cento anni, in piena barbarie, quasi che la Grande guerra dovesse essere combattuta per la seconda volta. Ma in un altro tempo, come se la promessa “mai più” non fosse mai stata solennemente pronunciata; e per di più con la presenza di soldati italiani in Serbia e Montenegro, come se la nostra Costituzione non ripudiasse la guerra. E così ho cominciato a fantasticare: immaginiamo che una notte, durante la prima Guerra Mondiale, un bombardiere austriaco venga abbattuto sulla laguna di Venezia… E qui la fredda cronaca per diventare materiale narrativo si arricchiva con le suggestioni più personali. In quei giorni nasceva Giacomo, mio figlio, e l’inizio del romanzo ne venne profondamente segnato.
L’acqua salata invase la cabina, mentre
l’aereo affondava rapidamente. Come in trance, Campini lottò per
liberarsi dalla cintura di sicurezza e nuotò verso la
superficie. Emerse con i polmoni che scoppiavano e finalmente
svenne. Un parto alla rovescia, praticamente. Campini, il protagonista, nasce nudo e indifeso dall’acqua tiepida della laguna. E subito incontra sua madre: l’enigmatica Flavia Manin, che lo salva dai rottami del suo aereo e piano piano gli insegnerà che il mondo è più complicato di quello che lui possa immaginare. Lo prende per mano e gli fa aprire gli occhi su una terribile macchinazione che parte dal futuro, dalla Bosnia Erzegovina dilaniata dalla guerra civile degli anni ’90. Il romanzo storico si colorava dei toni della novella fantastica, permettendomi di mantenere una promessa che mi ero fatto da bambino. Una promessa che era nata durante i periodi di vacanza dalla nonna, sul lago di Como. Lei aveva una splendida raccolta di Urania, la collana mondadoriana. Libriccini bianchi con un oblò aperto sui mostri più orribili e sulle galassie più affascinanti che il pennello dell’artista italo-olandese Karel Thole sapeva creare. Immagini che scavavano nella mia fantasia di bambino: materiale insuperabile per creare giochi bellissimi. E la nonna raccontava volentieri le storie di quei libri, inframezzandole coi suoi ricordi. Fu allora che decisi cosa avrei fatto da grande: avrei scritto uno di quei libri e – avevo già stabilito - Thole gli avrebbe disegnato la copertina. Un libro con un oblò da cui sarebbe sbucato un bellissimo aeroplano, il mio gioco preferito, uno di quegli aeroplani di balsa e carta che d’estate facevo volare sul lago. E ci volevo anche un teschio, meglio ancora, una nuvola a forma di teschio. Per fare paura, per fare sognare un altro bambino. Venticinque anni dopo sarei riuscito a mantenere quella promessa (ma accidenti a me, invece che fare lo scrittore non potevo desiderare di vincere al totocalcio?) con l’unico, grande rimpianto che Karel era diventato troppo vecchio per dipingere una copertina delle sue. Vinsi dunque il Premio Urania, destinato al migliore romanzo di fantascienza inedito; il che era una bella sfida, in quanto io c’entravo davvero poco con disintegratori, alieni e astronavi. Per mia fortuna, gli elementi fantastici del romanzo convinsero la maggior parte dei giurati a chiudere un occhio sulla mancanza di vera fantascienza, e i Biplani videro la luce nel ’96, sia pure con una copertina orribile, nella collana dei miei sogni di ragazzino. Il miscuglio tra romanzo storico, romanzo di guerra, aeronautica e di spionaggio, sospeso tra il passato e il futuro spiazzò i fan dei disintegratori, che giustamente mi considerarono sempre una specie di infiltrato, e mai veramente “uno di loro”, ma in compenso intrigò chi cercava una storia diversa dal solito. Il romanzo venne immediatamente tradotto all’estero, inizialmente in francese dove conquistò il Prix Bob Morane al salone del libro fantastico di Bruxelles, come miglior romanzo straniero (nientepopodimeno). “Si pone incontestabilmente fra i migliori romanzi tradotti dell'anno”, scrisse il quotidiano parigino le Monde. Che più avanti, mi riconosceva di aver inaugurato “un filone molto personale nella letteratura fantastica”. Bene, la prima parte della promessa l’ho mantenuta. E adesso, dieci anni dopo la prima edizione, posso mantenere anche la seconda: una bellissima copertina. Con una nuvola a forma di teschio. E come se il teschio non bastasse a far felice il ragazzino che è in me, quello strano triplano bianco e blu che campeggia in copertina è proprio uno dei miei aeroplanini, uno dei miei preferiti… Purtroppo di lui mi sono rimaste solo le ali, dopo che è andato distrutto in uno scontro in volo durante una gara di aircombat. Ma poco male, io so volare anche senza aeroplanini, mi basta la tastiera e tante storie da inventare.
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