Il
Giovanotto
Panorama Economy n.10, 17 luglio 2003
La tipa vestita di rosso
giocherella con l’orecchino e poi si mette in bocca una sigaretta,
di quelle che vanno di moda adesso. Tabacco transgenico, senza
neanche l’ombra di nicotina. Fa male lo stesso, ma nessuno si fa
problemi a fumare quella roba, nemmeno nell’ufficio di un
commissario della Polizia Genetica. Le offro l’accendino, e quando
lei si protende sulla scrivania, una scollatura da omicidio mi
devasta il campo visivo. La mano che regge la fiammella tremola. Non
tanto per la carne che il reggiseno mi sbatte in faccia, quanto per
la zaffata che mi raggiunge le narici. Feromoni francesi da cento
euro la goccia. Lei se ne accorge e gli occhi le brillano divertiti,
proprio mentre il giovanotto mi sta gridando di non fidarmi.
Il giovanotto è il mio braccio destro. Dal gomito in su.
Quello vero me l’han dovuto tagliare, quando qualcuno mi ha spedito
una busta piena di virus mutanti per ringraziarmi di averlo sbattuto
in galera. Il dottore dice che è identico all’originale, visto che
viene dalle mie cellule staminali. Anche se è cresciuto in due
settimane, in una specie di incubatrice. Per quello lo chiamo
giovanotto; nessuno mi toglierà dalla testa che lui è più
giovane di me. Ma è furbo, per la sua età: ogni volta che qualcuno
cerca di fregarmi, mi prude. Suggestione, dice il dottore. Sarà, ma
intanto mi prude. I dannati feromoni funzionano fin troppo bene.
Avevo diciotto anni, l’ultima volta che ricordo di aver provato una
simile tempesta ormonale. Per calmare i bollenti spiriti fingo di
rileggere la denuncia, mentre lei mette la sua copia nella borsetta,
morbida e cangiante come può esserlo solo la pelle di coccodrillo
Ogm che vale tre mesi del mio stipendio.
–Commissario?
–Sì?
Sbatte gli occhioni azzurri.
–Posso venirla a trovare, nei prossimi giorni? Per le indagini,
voglio dire. Per me è davvero importante…
–Ah, certo, le indagini.–
nascondo la delusione sotto un sorriso professionale.
–Naturalmente,
dottoressa...– leggo la firma in calce alla denuncia –Cornelia
Mendelli. Venite quando volete.
Quando esce apro la finestra
per far uscire i feromoni. Aspiro una boccata d’aria, fresca
nonostante l’umidità. Colpa del traffico, di queste macchine che
bruciano idrogeno di sintesi batterica. Ci erano sembrati una cosa
intelligente, i motori spinti dalle scorregge dei microbi. Ci
avevano detto che l’idrogeno bruciando produce solo acqua purissima.
Ma nessuno aveva detto che l’umidità dell’aria delle città sarebbe
arrivata al novanta per cento. L’occhio mi cade su un coso
appoggiato sulla mia scrivania. È un orecchino, con una perla
incastonata. Evidentemente, apparteneva alla tipa vestita di rosso.
Lo faccio scivolare in tasca, prendo il cappello e esco in
corridoio. Appena in tempo per agguantare il braccio dell’agente Lo
Russo, che con la precisione di un orologio atomico sta per timbrare
l’uscita.
–Sei ancora in servizio– gli
dico, trascinandomelo dietro. –Tua moglie vuole sempre farsi
quell’impianto di ovuli fecondati?
–Commissario, non parla
d’altro! Io le dico che i figli costano, specialmente se non li puoi
fare alla vecchia maniera, ma lei…
Lo spingo verso la volante.
–E allora vieni con me. Oggi ci scappa la promozione.
Lo Russo non dice niente,
anche perché ormai siamo alla macchina. –Metti la sirena– ordino.
–Ma che è successo,
commissario?
–Violazione della legge sul
copyright genetico. Un’agronoma, tale Mendelli Cornelia, è venuta a
denunciare il furto di un seme sperimentale della società per cui
lavora, la Wetware International… ma te lo racconto poi. Ci siamo,
ferma qui.
Lo Russo esegue, scendiamo e
suoniamo il campanello di un palazzo fatiscente.
La porta si apre e appare il
faccione di Matteo Carlini, una lista di precedenti che pesa cinque
chili, l’hacker genetico più famoso d’Italia.
–Commissario, ma che
piacere!– bofonchia, facendoci entrare.
–Dalla tua faccia non si
direbbe– rispondo. La stanza è piena di apparecchiature che
basterebbero per dieci ospedali. O per dieci anni di galera. Per
forza che Carlini suda come un maiale, anche se le colonie di
batteri modificati che si è impiantato nelle ascelle trasformano il
tanfo in olezzo di lillà.
–In che posso servirvi,
commissario?
–Ieri hanno rubato un seme
alla Wetware. Ne sai mica niente?
L’hacker sembra veramente
impressionato. –Oh mio Dio, non sarà mica il prototipo del
Granautarchico? Il granturco che fissa l’azoto atmosferico, così
può fertilizzarsi da solo? Ci hanno lavorato su cinque anni, il
brevetto vale almeno mille miliardi!
–Bravo, e tu come fai a
saperlo così bene?
–Suvvia, commissario…
nell’ambiente lo sanno tutti. E poi ho l’alibi, ieri ero in galera.
Mi ci avete spedito voi.
Sogghigno, e gli lancio
l’orecchino della tipa in rosso. –Fammi un piacere, sciogli questa
perla nell’aceto, scommettiamo che dentro ci trovi un seme di
granturco? E poi tirane fuori il Dna e confrontalo col genoma del
Granautarchico. Immagino che tu ce l’abbia, una copia di quel
genoma.
L’hacker si gratta la testa.
–Io dovrei avere il genoma
del Granautarchico? Ma di cosa mi stai accusando, di preciso?
–Finiscila con la commedia–
rispondo, e gli lancio il bloc notes. L’hacker è sovrappeso e
nervosissimo, ma riese lo stesso ad afferrare al volo il
libriccino. –Lo sai benissimo che il genoma degli organismi in
attesa di brevetto è pubblico per legge.
Le mani di Carlini tremano,
quando sfiora la pagina quadrettata con l’indice e la carta
elettronica reagisce. Via radio comincia a fluire una nuvola di bit
che unisce il bloc notes a Internet, e sulla pagina del taccuino
comincia a formarsi la lunghissima doppia elica del Dna del seme
rubato.
–Ma che significa? Chi ve
l’ha dato, quell’orecchino? – balbetta l’hacker.
–Il ladro. Anzi, la ladra.
Sapeva che prima o poi sarebbe finita nel registro degli indagati, e
ha pensato bene di nascondere il corpo del reato nell’ultimo posto
dove qualcuno lo avrebbe cercato: la sede della Polizia Genetica. Ha
anche cercato di fare, dicamo, “amicizia” con me per recuperarlo con
comodo, quando le acque si fossero calmate.
–Ma voi come avete fatto a
capirlo?– chiede Lo Russo, sbalordito.
–Niente, ho avuto una
soffiata– rispondo, e istintivamente mi accarezzo il giovanotto.
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