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La taverna
del Teschio

Radio Città del Capo, giugno 2006

Questo racconto mi è stato richiesto per essere inserito in un volume contenenti rivisitazioni letterarie del personaggio salgariano, un'iniziativa  dalle ragazze della trasmissione Mompracem

La taverna del Teschio brulica di persone, come sempre. Il portoghese con i baffetti sta accendendosi la centesima sigaretta, come se non ci fosse già abbastanza fumo dentro la locanda. Oltre a riempire di mozziconi un posacenere dopo l'altro, cerca di insegnare a servire il the a un malese, manco fosse alla reggia della regina Elisabetta invece che in una sperduta locanda in mezzo al nulla. -Ecco, bravo- sta dicendo all'uomo che regge tra le mani una teiera tutta ammaccata, piena di rum caldo, visto che il the alla taverna del Teschio nessuno sa nemmeno cosa sia. -E ora, versane un poco nella mia tazza-. Il malese esegue il compito con l'antica dignità della sua razza e, quando ha finito, il portoghese sbatte i piedi sul tavolo e dice: -Bene, ora versa quello che resta a terra.-

-Ma questo non me l'avete mai detto! Siete sicuro che in Europa si usi così?- protesta.

Per tutta risposta il portoghese fa un sorrisetto e si tormenta il baffo. Il povero malese esegue l'ordine, versando a terra un rivolo di rum caldo. Il portoghese sfila da uno stivale un pugnale dalla lama tutta arrugginita e lo scaglia a terra, proprio dove c'è la chiazza di rum. La lama si pianta nel legno del pavimento con un rumore schifoso. Poi raccoglie il pugnale e lo mette sotto il naso del malese: -Ma qui non siamo in Europa- sogghigna. -Guarda qui-. Trafitto sulla punta del coltello si contorce in agonia uno scarafaggio grosso come il piede di un uomo.

-Eh eh, questo giochetto dovresti farlo coi serpenti velenosi, mica con gli scarrafoni- ridacchia una voce sgangherata. Appartiene a un tizio dalla pelle scura e gli occhi chiari. Ha i capelli unti, lunghi e quasi del tutto bianchi, vestito come il principe di un operetta. Con tanto di piuma di struzzo e perla gigante dall'aria falsa appiccicata al turbante. Il bel tomo è sdraiato su una pila di cuscini e a mo' di pouf tiene i piedi sulla schiena di una tigre tutta pelle e ossa, accucciata davanti a lui. Gli occhi del felino si posano annoiati sullo scarafaggio moribondo, poi la bestia fa un gran sbadiglio mostrando le zanne gialle e cariate e torna ad addormentarsi come un micio impigrito.

-Toh, il mio fratellino è ancora tra noi!- brontola il portoghese. -E tu saresti la Tigre della Malesia? Pietoso, le belve dovresti ucciderle a mani nude, mica dormirci sopra come un vecchio all'ospizio-. Quello con la tigre è uno degli ospiti più silenziosi della locanda del Teschio. È uscito di testa da quando la sua amante, una svenevole tardona inglese tutta cellulite, chiamata la Perla di qualcosa, l'ha mollato per mettersi con un'altra donna. Una certa Dolores, una ubriacona dalla fastidiosa voce squillante che si veste - e puzza - come un marinaio. Ogni tanto nel delirium tremens borbotta di voler tornare in un posto che esiste solo nella sua testa bacata. La chiama l'“Isola dei Famosi” ma nessuno l'ha mai sentita nominare, e dire che qui al Teschio di gente di mare ce n'è un'infinità.

Il rimbrotto del portoghese non scuote il vecchio, che si attacca alla bottiglia e tira una sorsata di liquore di pessima qualità. Un rivolo appiccicoso gli scende lungo il collo inzuppando il vestito da pagliaccio che porta addosso. -La Tigre è morta per sempre- sentenzia, poi rutta e si mette a russare.

-La Tigre è morta? Siamo tutti morti!- bercia un altro matto. Nessuno sa quale sia il suo nome, per tutti è solo Mastro Catrame, un marinaio alcolizzato che fa il giro degli avventori per cercare qualcuno che ha voglia di sentire per l'ennesima volta le sue storie di mare, tanto lugubri quanto noiose. Tutti quelli abbastanza sobri si girano dall'altra parte per evitare che Mastro Catrame gli attacchi il bottone, ma quello non si dà per vinto e grida a squarciagola: -Lo sapete perché questa locanda si chiama il Teschio, vero? Lo sapete perché nessuno di noi può uscirne e siamo condannati a passare i nostri giorni tra queste mura schifose, senza mai più poter tornare a vedere il mare?-

-Perché siamo morti. Almeno, credo...- dico io. Non so perché gli abbia dato corda, ma mi fa pena questo rottame umano col cervello pieno di storie senza capo né coda.

Gli occhietti porcini di Mastro Catrame mi mettono a fuoco. -Voi dovete essere la signorina Jolanda. Tant'è che mi sembra di vedere in voi, signora, il ritratto del fiero gentiluomo d'oltremare...

-Ma di quale fiero gentiluomo andate cianciando? Intendete dire quel rottame umano che scommette sui galli col suo degno compare Morgan?- gli indico due barboni che bestemmiano e si scalmanano all'altro capo della locanda. Davanti a loro, duettano con aria stanca due scheletri di pennuti. Non intendo dire che si tratti di due galli magri o male in arnese, intendo proprio dire due scheletri di galli: vertebre, femori,costole e cranio che si muovono come se fossero vivi.

Mastro Catrame si stringe nelle spalle. -Già, lui. Il Corsaro nero. Fa pena vederlo conciato così. Come tutti noi, del resto. Guardate voi stessa come siete ridotta-. Mi sbatte sul tavolo uno specchio d'argento da toilette. Santo Cielo, da quanto tempo non ne vedevo uno! Lo prendo in mano e mi ci specchio. Beh, mi piacerebbe poter dire che l'immagine riflessa sia quella di una bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un giunco. Ma a essere onesti sono grassa come una balena, ho i capelli in uno stato orribile e la pelle grassa e piena di punti neri.

Meccanicamente me ne schiaccio uno, raccogliendo sull'unghia un bel grumo di pus.

-Lo sapete perché questa locanda si chiama Teschio?- mi chiede Mastro Catrame.

Per tutta risposta, faccio qualche smorfia nello specchio per cercare altri punti neri da schiacciare.

-Perché è un teschio- si risponde da solo il marinaio.

-Ah sì?- gli faccio io di rimando, distrattamente, senza badare alle sue ciance da ubriacone.

-Il teschio di un uomo. Che sogna di noi. -Sogna- mormora per la seconda volta. -E proprio ora sogna di voi...-

-Contento lui...- butto lì, e do un'altra occhiata nello specchio. La mascella mi casca. Non c'è più la mia faccia, dallo specchio mi sorride una bellissima ragazza dai capelli neri come l'ala di un corvo, tenuti sciolti sulle spalle, legati solamente sotto la nuca da una piccola fila di perle. Sulla testa, porta (porto?) un cappello di feltro oscuro adorno d'una piuma nera. Spalanco la bocca, e pure la ragazza dello specchio apre la sua. Chiudo un occhio, e quell'incredibile riflesso fa anch'esso l'occhiolino.

-Sogna di voi- continua Mastro Catrame. -E di vostro padre, e di me, e di Yanez- dice indicando il portoghese che sta riattaccando con la solfa del the -e di Sandokan, la Tigre della Malesia.-

Con la coda dell'occhio, mi pare che il vecchio della tigre sia diventato un fiero principe del Borneo dagli occhi di ghiaccio. Ma appena lo metto a fuoco torna a essere il solito rottame umano devastato dalla cirrosi epatica, che non si capisce se stia dormendo o sia già scivolato nel coma etilico.

-Non capisco- dico, tornando a fissare l'attenzione sullo specchio. La mia immagine continua a essere quella della splendida giovinetta che non sono mai stata.

-È uno scrittore- dice Mastro Catrame. -O meglio, potrebbe esserlo. E noi siamo... o per meglio dire potremmo essere i personaggi delle sue storie, se solo si decidesse a scriverle. Non siamo morti, Jolanda. Semplicemente, non siamo mai nati. E non nasceremo mai, se rimarremo confinati qui- indica con la mano le pareti squallide della locanda. -Non è una taverna. È un teschio. Il teschio di un uomo che sogna. E noi siamo i suoi sogni, ogni notte più sbiaditi, ogni giorno più squallidi-. Sbatte con violenza lo specchio sul tavolaccio della locanda, mandandolo in pezzi. Sotto il mio sguardo inorridito, prende un grosso frammento di vetro e si squarcia le vene del polso. Poi mi sbatte sotto il naso l'orrida ferita slabbrata. Dalle arterie aperte non esce assolutamente nulla.

-Neanche una goccia di sangue- scandisce il marinaio. Se fossimo uomini vivi, sanguineremmo. Se fossimo personaggi di un libro, dalle nostre vene sgorgherebbe inchiostro. Ma non siamo nulla, se non i sogni di una mente tormentata. Siamo la fantasia congelata di uno scrittore che non scrive, di un uomo che non ha il coraggio delle sue storie. Siamo solo ombre senza speranza, signora di Ventimiglia. Destinati a rimanere per sempre arenati in questo teschio.

Privo del vetro, l'occhio dello specchio è diventato un buco nero. Infilo la mano nella cornice d’argento priva del vetro, e questa entra senza sforzo nel foro, fino al gomito. Sbigottita, ritraggo il braccio e fisso lo specchio rotto. In fondo al nero, lontanissimo, vedo l'immagine di un insignificante ometto coi baffetti a manubrio e la berretta da notte, che russa beato tra cuscini freschi di bucato. Mi coglie una struggente nostalgia per il mar dei Caraibi, per il vento carico di salsedine tra i capelli. Anche se non ci sono mai stata, anche se non ho mai navigato quelle acque verdissime.

-Gli manca il coraggio!- geme Mastro Catrame.-E nessun vivente glielo potrà dare-. Improvvisamente, mi si accende un lampo nella mente. Ora so cosa devo fare. Balzo in piedi sul tavolaccio e grido: -Su, uomini del mare!... All'abbordaggio! Volete stare rintanati per sempre come topi in questa fogna? Saremo noi a dargli la forza! Conquistiamo il nostro destino.-

Tutti dimenticano per un momento il rum e si voltano a guardarmi, inebetiti. I due barboni che giocano coi galli morti mi fissano, e negli occhi di uno dei due appare un barlume di interesse.

-...Jolanda?- mormora con la voce impastata. -Sei davvero tu, figlia mia?-

Sì. O meglio, no. Non voglio più essere Jolanda la sciattona. Ora sono la signora di Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava mio padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli e una spada nella destra. Sto ritta sul tavolo della locanda e addito ai corsari lo specchio. -Su, uomini del mare!- ripeto, con un accento fiero e tonante che non mi appartiene ma in qualche modo so che era quello che sapeva ritrovare mio padre nei momenti più terribili. -All'abbordaggio! La figlia del Corsaro Nero vi guarda!-
Il primo a muoversi è il vecchio della tigre. Si alza e si avvicina, dapprima tremolante come l'ottuagenario alcolista che è, ma a ogni passo è più giovane e più fiero. Anche la tigre che lo segue diventa sempre meno gattaccio spelacchiato e sempre più nobile felino. Poi l'uomo e la bestia balzano all'unisono nello specchio, come artisti circensi che saltano nel cerchio di fuoco, lanciando un terribile urlo di guerra. A quella vista tutti si precipitano allo specchio gridando
-All'abbordaggio!... All'abbordaggio!- e ci saltano dentro, sparendo nelle tenebre. Persino il portoghese spegne l'onnipresente sigaretta sotto il tacco dello stivale e si getta a capofitto nel buco nero. Uno dopo l'altro, alla fine nella locanda rimaniamo solo io e Mastro Catrame, che piange di commozione.
-Signora- mi dice, mentre i suoi occhi, ordinariamente freddi, s'accendono d'un lampo strano. -È a voi che noi dobbiamo la fortuna di aver vinto la più terribile delle battaglie. Senza la vostra improvvisa comparsa e quel grido, che imitava così bene la voce squillante di vostro padre, l'invincibile Corsaro Nero, forse a quest'ora la nostra sorte sarebbe segnata e saremmo rimasti per sempre qui, nell'oblio.
Gli sorrido. -Forse dovremmo andare anche noi, non trovate?-
Il vecchio mi ferma con un gesto imperioso. -Sì, ma questa vostra vittoria ha un prezzo che bisogna pagare. Un prezzo terribilmente alto-. Mi consegna uno scrigno sigillato.
-Che cos'è?- chiedo, turbata.
-Il prezzo amaro della vittoria.-
-Devo aprirlo?- chiedo, intimorita dal suo tono solenne.
Il marinaio si asciuga le lacrime e scuote il capo. -Non ora, signora. Non ora.- mormora. Poi la voce gli si fa più salda e continua: -Saprete voi quando sarà il momento-. Vinto dalla commozione, mi abbraccia forte. -Ma quando sarà giunta l'ora, siate forte e non abbiate rimorsi. Ricordate sempre che oggi avete fatto la cosa giusta.
Scuoto lo scrigno, per cercare di indovinare cosa possa contenere. -Voi mi spaventate, Mastro Catrame!
Il marinaio mi bacia sulla fronte. -Basta, abbiamo indugiato sin troppo. Ora andiamo. Tenete con voi lo scrigno. Abbiatene cura, e ricordate sempre che oggi avete fatto la cosa giusta.
Prendo il vecchio per mano e insieme saltiamo nell'ignoto.

 

2

-Ma cosa fai, Emilio, sei matto? Dormi, che domattina devi alzarti presto per andare al lavoro!
La mano della donna corre al lume a petrolio, rischiarando la camera da letto povera ma dignitosa. L'ometto coi baffi, in preda a una viva eccitazione, balza giù dal letto e corre allo scrittoio, ancora con indosso la camicia da notte.
-Ma cosa fai, Emilio? Vieni a letto, ti pare che è l'ora di scrivere questa?
Ma già il pennino d'oca scivola veloce sulla carta.
-Emilio? Emilio, madonna santa, ti sei ammattito?- la donna si alza faticosamente dalle lenzuola, stringendosi in uno scialle di lana.
-Silenzio, Ida!- sbotta l'ometto, senza smettere di scrivere come un forsennato. La donna si avvicina al marito, e con aria protettiva gli mette sulle spalle un maglioncino. -Ma cosa fai, un articolo per il giornale? A quest'ora?
L'uomo distoglie per un attimo l'attenzione da quello che sta scrivendo. La donna aggrotta le sopracciglia sbirciando il foglio. “la Tigre della Malesia?” ma che roba l'è questa qui? Emilio, te sei tutto matto. Vieni a letto, va'.-
Ma lo sguardo del marito ormai non la vede più. Spazia al di là delle pareti che avrebbero bisogno di una bella mano di intonaco, al di là di Verona, al di là dell'Adriatico. Nei suoi occhi ormai c'è posto solo per l'azzurro del Mar dei Caraibi, per la Malesia lussureggiante e il lontano mondo del Duemila.

 

3

Sono anni ormai che con la mia flotta incrocio il Golfo del Messico tenendo alto l'onore della filibusta. Da Maracaybo a Cuba gli spagnoli hanno imparato a temere il mio nome come già avevano terrore di quello di mio padre, il Corsaro Nero. Anni di lotte, tradimenti, imprese disperate e vittorie esaltanti. Ho vissuto una vita piena di avventure e ho anche trovato l'amore al fianco di Morgan, l'antico luogotenente di mio padre che da poco è divenuto il mio adorato marito. Ma ora che Spagna e Inghilterra hanno fatto pace è finito il tempo dei corsari. E dunque anche per me è venuto il momento di ritirarmi. Il mare questa sera è liscio come l'olio, e un bel vento di maestrale spinge la mia nave nel suo ultimo viaggio, quello che mi porterà alla Giamaica per vivere finalmente tranquilla e godermi i frutti di tante lotte.
La porta del cassero di poppa si spalanca ed entra il mio fido capitano, Carmaux, col cappello in mano.
-Ammiraglio, la costa è in vista- mi dice. -Posso dare gli ordini per entrare in porto?-
-Grazie Carmaux- rispondo con un sorriso che mi rendo conto riesce piuttosto stentato.
-Tutto bene, ammiraglio?- chiede il fido ufficiale. Coglie la tristezza che traspare dai miei occhi, dopo tanti anni legge nel mio cuore come in un libro aperto.
-Tutto bene, sì. Ho solo bisogno di rimanere un poco con i miei ricordi. Ti prego, lasciami sola.
Carmaux abbassa lo sguardo. -Perdonatemi, ammiraglio- dice, e silenziosamente chiude il portello.
Traggo un lungo respiro e mi verso un bicchiere di rum. Lo tracanno in una sola golata. Di solito non bevo, ma questa è una serata speciale. Lascio cadere a terra il bicchiere e, senza curarmi dei cocci, vado alla scrivania della mia cabina. Dalle ampie vetrate sulla poppa della nave entrano gli ultimi raggi di sole del tramonto, che incendiano il mar dei Caraibi di una bella luce dorata.
Nella scrivania, uno splendido mobile di stucco, preda di un galeone spagnolo che abbiamo abbordato anni fa al largo del Venezuela, c'è un cassettino segreto. Solo io lo conosco, e solo io so come aprirlo. Un tocco sulle dorature, proprio nel posto giusto, e il meccanismo scatta aprendo il cassetto.
Dentro non ci sono tesori. Solo un piccolo scrigno, di cui nessuno conosce l'esistenza. Uno scrigno che è con me da sempre, e ora so che è venuto il momento giusto per aprirlo.
Il momento di conoscere l'amaro prezzo della vittoria.
Proprio a me che ho abbordato decine di navi armate di terribili cannoni e sfidato le tempeste del Golfo del Messico tremano le mani mentre sollevo il coperchio.
Dentro c'è una lettera e un rasoio.
Comincio dal rasoio. È molto grande, col manico d'osso. Faccio scattare la sicura e si apre la lama, arrugginita e macchiata di sangue. Deglutisco. È un'arma terribile, d'acciaio chirurgico, mortale nonostante il cattivo stato del filo.
Un nodo mi chiude la gola, mentre uso il rasoio per far saltare i sigilli della lettera che lo accompagna.
Anche il foglio è intriso di sangue secco, identico a quello che macchia il rasoio. Sono solo poche righe, vergate in una elegante calligrafia inclinata. Non faccio nessuna fatica a leggerle. Le mie lacrime si mescolano al sangue e all'inchiostro.

Ai miei editori:

A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che io vi ho dato pensiate ai miei funerali.

Vi saluto spezzando la penna.

Firmato: Salgari Emilio.

 

Mentre il nostromo grida l'ordine di ormeggio della nave giunta al termine del suo ultimo viaggio, rimetto nello scrigno il rasoio e la lettera.
-Perdonami, se puoi, uomo dei sogni- mormoro. -E grazie per avermi sognata
.

 

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